In occasione del centenario della nascita di Meri Testolin

Commemorazione del Prof. Liverio Carollo

La targa che oggi viene scoperta in onore di Silvano Testolin e di Meri è stata posta nella loro casa natale soprattutto per iniziativa del Gruppo Silva che opera tra Mortisa, Calvene, e le aree circumvicine. Suo obiettivo: tenere vivi e trasmettere gli ideali della Resistenza. Il gruppo gestisce il Sentiero partigiano di Granezza, quello delle Pietre Spezzate alle Lore, gestisce l’interessante Museo della Resistenza di Mortisa (vi invito vivamente a visitarlo). Il Gruppo ha intenzione di curare quest’anno una pubblicazione su Silva nel centenario della nascita; in essa si propone anche un sentiero sui luoghi che videro la sua tragica fine.  Il gruppo Silva lavora anche con le scuole portando classi di alunni sui citati sentieri.  Un gruppo attivo insomma.

Silvano Testolin (Fifi), classe 1915, abitava qui ed apparteneva ad una famiglia antifascista di vecchia data. Durante il ventennio I suoi componenti dovettero perciò in buona parte emigrare. Ci fu una vera e propria diaspora. Erano in sette fratelli. Due dei tre fratelli più anziani andarono in Francia. Un altro, Egisto, fu in Albania dove morì. Da ricerche condotte dall’amico Francesco Brazzale so che è Medaglia di Bronzo al V. M. Anche Silvano fu a lungo all’estero, in Francia, poi in Africa a combattere con la Legione Straniera. Forse dovette prendere questa decisione per non essere consegnato dai francesi alle autorità fasciste. Ebbe dalla Francia una Coix de Guerre. Tornato in Italia, dopo l’8 settembre 1943, assieme alla sorella Meri, infaticabile staffetta, e al fratello più giovane, Gerolamo- Momi, fu il primo ad organizzare nuclei di Resistenza a Calvene. Uno dei primi poi a salire con Silva nel Bosconero. Fifi svolse cioè in Calvene il ruolo che a Fara fu di Arnaldi, che a Thiene fu di Chilesotti e Falco, a Zugliano di Fabris Alfredo, a Marano di Silva. Fu cioè punto di riferimento, guida per quei militari e quei giovani che non volevano servire in armi i fascisti e gli invasori tedeschi.

Tutti sappiamo come Silvano finì: in Granezza, durante una marcia di perlustrazione assieme a Falco (Testolin Fulvio), fu dilaniato da una granata che portava attaccata alla cintura. Lunga la sua odissea tra gli ospedali della pedemontana, tutti impauriti a ricevere un “bandito” così celebre e ricercato. Morì dissanguato all’ospedale di Thiene sotto falso nome. Da allora Silva chiamò “Silvano Testolin” il suo battaglione di montagna.

La sorella Meri, unica donna tra sei fratelli maschi, fu staffetta della Mazzini, prima con Fifi e poi con Silva.  Nelle lunghe distanze la ragazza si muoveva in treno, ma in zona usava la fedele bicicletta. Era a Vicenza, sui Berici, dove Chilesotti organizzava gli aviolanci degli Alleati. Portava messaggi, ordini, vestiario, armi a Novoledo, a Fara, in Rialto, dai Boschiero, dove agiva Arnaldi, a Marano, a Calvene e su in Granezza dopo che Silva con Falco, Fifi, Fabris e Talin aveva costituito il battaglione partigiano di montagna. Meri rischiò la vita nella primavera 1944. Militi della X Mas l’avevano presa e battuta senza pietà. Volevano conoscere i nascondigli di Fifi e del fratello Momi. Meri resistette tenacemente e i fratelli furono salvi. Solo l’intervento del parroco di allora (don Pietro Costa) salvò Meri dalla fucilazione in piazza a Calvene.

La targa che oggi abbiamo scoperto è dunque dedicata a Fifi, ma io dico anche a tutta la famiglia Testolin, anzi a tutte queste contrade alte di Calvene (Cioda, Campanela) che durante la Resistenza occultarono bunker – rifugio per i partigiani. Bunker strategici, perché resi sicuri da uscite verso la Chiavona o verso i campi e i versanti boscagliati che scendono dai Binoti e Pradelgiglio. Tra queste case occhi vigili di donne, di ragazze, di bambini perfino, erano sempre in all’erta a cogliere qualcosa di insolito, qualche avvisaglia di pericolo.

Perfino i due mulini di Calvene (el Mulineto, in basso, e quello de Pierela, in alto) svolsero un ruolo rilevante in quei due anni tragici di Resistenza.

Il Mulineto era il luogo di raccolta dei giovani della Pedemontana renitenti alla leva fascista. Nella primavera estate 1944 moltissimi cercavano rifugio su in Granezza da Silva. Solitamente giungevano da Thiene e dintorni, di notte, scavalcando le Bregonze, perché era un tragitto più defilato e sicuro. Per il sentiero della Pria Fosca e dei Ciossi o per quello dei Magan scendevano al Majo e al Mulineto. Qui sostavano e si rifocillavano e poi, guidati da accompagnatori, via verso Granezza. Andavano su per il Grumale, per la Val Porca, per contrà Monte, Meletta e il Vanzo.

Il Mulino di Pierela, nella parte più elevata del paese, era vicino all’imbocco dei sentieri per la montagna. Lì si macinava il mais per la polenta dei partigiani di Granezza. Mais che veniva dalla Pedemontana, dal Thienese. Solo della Brigata Mazzini, nell’estate 1944, di “ribelli” ce n’erano più di duecento. Tutti ragazzi dai 18 ai 23 – 24 anni, tutti affamati e da sfamare. Il Mulino de Pierela nel 1944 – 45 era gestito da due donne: donne coraggiose. I fascisti mica erano scemi, avevano capito che macinavano per i ribelli. Diffidate a farlo e controllate durante il giorno, si ingegnavano a macinare di notte. E poi la farina, ancora col buio, per il sentiero di Corona o per quello dei Cavrari e de’a Sima de Cudin, si avviava verso la montagna.

Abbiamo dunque bunker sorvegliati da donne, da vecchi, da ragazzi, abbiamo donne che quasi nell’oscurità si affannano di notte intorno alle macine, sfidando violenze, battiture, l’incendio della casa stessa… Tutto ciò dimostra che la Resistenza non fu una rivolta di soli militari o di renitenti alle armi, ma una rivolta più sentita, più profonda, di popolo.

Oggi abbiamo scoperto una targa. Non deve essere vista come una targa-ricordo, ma come testimonianza che anche qui c’è un presidio di resistenza democratica. Un avvertimento per dire che c’è gente che vigila, che sta sulla breccia. Perché il fascismo non è morto! Il fascismo non è una parentesi nella storia, una ubriacatura di passaggio che ha avuto un inizio e che ha avuto una fine. Il fascismo è una costante nella storia. E lo è perché è una costante dentro il nostro animo. Più o meno latente, in ognuno di noi c’è una componente di fascismo, un magma che nei momenti difficili, di crisi tende ad emergere.

Quante volte non proviamo insofferenza verso le discussioni lunghe della politica, viste spesso come rissose, inconcludenti e inutili per il bene comune.

Quante volte si sente dire che andrebbe bene un’autorità forte, capace di decisione, che saprebbe in poco tempo risolvere le situazioni con un colpo netto senza star lì a districare i nodi con la pazienza delle dita.

Quante volte osserviamo che la giustizia è lunga, non funziona e sentiamo dire che ci vogliono sentenze, esecuzioni esemplari.

 E’ indubbio che anche la politica ha le sue colpe. Però questa rabbia, sfiducia, rancore verso la politica non devono trasformarsi in chiusure, in atteggiamenti di indifferenza. Pensiamo che attualmente c’è una percentuale del trenta per cento e più che neanche va più a votare!

Ora tutto questo non è fascismo, ma è un humus che favorisce la sua crescita. Che è una crescita subdola, silenziosa come quella di certe malattie che le scopri quando sono già in uno stadio avanzato. Per questo bisogna restare vigili e reagire, dentro di noi soprattutto, alla sfiducia, al pessimismo, all’indifferenza

La targa afferma che Fifi e Meri hanno contribuito a costruire la pace di cui noi oggi godiamo. Ed è vero. E questa pace dobbiamo assolutamente mantenerla perché è il bene più grande che abbiamo dopo la libertà. E’ quella che in settanta anni ci ha permesso di vivere quieti, costruire benessere per noi e per i nostri figli.

Bisogna mantenerla. Tante sono le strade attraverso le quali si mantiene la pace, ma ne dico alcune perché sono quelle su cui più possiamo incidere e  che attualmente mi sembrano più pregnanti, vista la situazione che viviamo:

Pace significa umiltà e rispetto, riconoscere che i problemi, specie oggi con il mondo che si fa piccolo, sono complessi e che per affrontarli occorre l’aiuto di tutti. Allora ci vuol rispetto verso chi la pensa diversamente da te. Anche nell’avversario infatti c’è sempre un risvolto di verità. Quanto bambinesche sono quella affermazioni che oggi vanno per la maggiore: io sono nel giusto, tu invece ci porti alla catastrofe, io vedo lontano, tu sei bendato; il bianco tutto da me, il nero tutto da te. Non funziona così: occorre collaborare (pur nelle opinioni diverse) perché nei rapporti sociali, nella vita, nelle vicende umane non è mai tutto bianco o tutto nero, prevalgono di gran lunga le sfumature, i chiaroscuri.

  • Pace oggi, significa sforzarci ad unire l’Europa, perché Europa vuol dire unione di forze per affrontare problemi vastissimi, di dimensioni globali che un tempo non esistevano: ad esempio il clima e l’ambiente, le migrazioni, le pandemie, l’economia ramificata nei veri continenti, la delinquenza che si organizza, quella sì, a livello europeo e internazionale. Queste emergenze (e sono solo alcune) le affronterà l’Italia con le sue sole forze, o la Croazia, o l’Olanda o la Gran Bretagna da sola? Ognuno capisce che è ridicolo.
  • Pace oggi significa rispetto per lo straniero (altro tema caldo).

I partigiani hanno combattuto per affossare il nazifascismo e le turpi leggi razziali del 1938 (approvate, badate bene, nell’indifferenza dei più!). Ma vedete che il razzismo non è morto. Vedete oggi che un’anziana signora di nome Segre, deve muoversi con la scorta solo perché è di discendenza ebraica. Roba da matti! Impensabile solo sette – otto anni fa.

Com’era facile essere antirazzisti quando i diversi erano lontani! Mi ricordo da insegnante com’era facile con gli allievi fare letture sull’Apartheid del Sudafrica e accusare con disprezzo i cinici razzisti bianchi che rifiutavano, ghettizzavano, sfruttavano i poveri neri.

Ma adesso che gli stranieri li abbiamo in casa, quante diffidenze, quanta difficoltà a conviverci! Certo l’immigrazione incontrollata deve finire. Non possiamo accogliere tutti sempre. Anche perché l’Africa, con la natalità in esplosione che ha, ci sommerge cinquanta volte. E’ un problema complicatissimo che va affrontato, minimo, in chiave europea. Ma intanto gli stranieri che sono qua? Che lavorano qua. Che hanno i figli a scuola con i nostri? Vogliamo evitare fratture, paure, vogliamo la pace? Allora dovremo far loro apprezzare il nostro paese. Che si affezionino un po’ a questo paese.

Io levo tanto di cappello a quelle associazioni di volontariato, anche a Thiene e a Calvene, che raccolgono le donne straniere (donne, badate bene, non uomini, perché sono le donne che poi educano i figli) per insegnare loro l’italiano. Che poi non è solo insegnamento, ma rapporti umani, conoscenza, amicizia, dialogo, superamento delle paure reciproche.

Vogliamo il dialogo, la pace? Bastano anche semplici gesti. Cominciamo a salutare lo straniero, la straniera che incontriamo per strada. Come è difficile salutare chi viene da fuori! Ma che formidabile segnale di rispetto e di accettazione è il saluto.

Lo spirito della Resistenza, i nobili principi della nostra Costituzione vanno oggi interpretati alla luce di queste novità che avanzano e che ci circondano. Questo vuol dirci la targa di Fifi e di Meri.

Insomma, la sostanza è che occorre, sforzo e impegno, essere vigili, partecipare, vincere l’indifferenza (che è il male più subdolo) perché la Costituzione, anche se è la più bella del mondo (come dice Benigni), non è un edificio completato, è un cantiere aperto, una casa in costruzione. E la malta per andare avanti con i lavori vedete che, in buona parte, ce la forniscono ancora oggi i nostri partigiani.